Il free jazz ci rende liberi?

Anche i più grandi appassionati di Jazz, quando si affronta o semplicemente si nomina la parola Free Jazz, hanno una specie di reazione di difesa, un moto di protezione, quasi come a dire: ‘capisco l’importanza, ma mi sembra un po’ troppo’.

La prima volta che ascoltai del Free Jazz, fu in televisione, un concerto dell’Art Ensemble of Chicago, ne restai turbato e affascinato, era la metà degli anni ’80, tanto da spingermi a comprare qualche disco di Albert Ayler e Ornette Coleman.

Ricordo ancora la faccia di mio padre quando una sera mi trovò a sentire quella “roba”, era interdetto, non mi disse niente, ma a cena poi mi chiese spiegazioni, ne voleva sapere di più.

Gli raccontai quello che sapevo, ma non mi parse molto convinto, a fine serata, dopo cena mi disse: ‘ metti un po’ di musica ci rilassiamo, Sergio Bruni ‘a papà mi raccomando!”

Il free jazz è così non fa sconti, non vuole e non ha mai voluto farsi degli amici, quella musica era un grido, una rottura, una presa di distanza sociale, umana e politica.

Sia chiaro, non è stato tutto oro quello che ha luccicato, non tutti i suoi protagonisti hanno brillato per consapevolezza, autenticità e tecnica, ma quel mondo e quegli anni hanno espresso uno degli ultimi momenti di rottura, una delle ultime pagine nelle quali gli artisti non hanno cercato il consenso del pubblico, ne la sua approvazione.

Da allora ne è passata di acqua sotto i miei ponti, ricordo come se fosse ora un incontro che registrai su un’ audiocassetta, con Anthony Braxton e la prima volta che riuscii a scambiare due parole con Archie Shepp, nel retropalco del glorioso Jazz Club Lennie Tristano di Aversa, e di quella volta che andai sentire Dizzy Gillespie con al sassofono Sam Rivers, un sassofonista che conoscevo solo per il suo periodo Free, e che quella sera mi trafisse con un be bop di altissimo livello.

In questo breve racconto, mi vorrei concentrare si Frank Lowe, un musicista che ascoltai la prima volta alla fine degli anni novanta, quando realizzavo un programma per la mitica “Radio Spazio Uno”, insieme al fidatissimo Pio Ingegno.

Avevo comprato un disco di Lowe, ed ero intenzionato a trasmetterlo, andavamo in onda in piena libertà tutte le notti dalle 23 sino all’una di notte. Lo misi sul piatto, e lo feci sentire a Poi, che mi guardò basito e poi laconico mi disse: ‘devi sempre esagerare, mettiamolo e vediamo cosa succede’.

Lo facemmo, trasmettemmo quel brano subito dopo la sigla, e dopo qualche minuto arrivò la telefonata di Mario Rovere, che allora era il direttore della rete, rideva, e continuava a dire: ‘Volpe ma che stai trasmettendo? Credevo si fosse rotto il nuovo trasmettitore della radio’

Da quella notte ci detti dentro, e ogni volta che potevo, e che riuscivo a procurarmi, roba non facile in quel periodo, dei dischi nuovi di Free Jazz, li mettevamo in onda, anche solo per vedere “Di nascosto l’effetto che fa”.

Oggi, tuto questo sarebbe impossibile, la radio, tranne rari casi, è ostaggio della leggerezza, degli ascolti, della facilitazione a tutti i costi, di risatine inutili, di volgarità, della lettura copiata e incollata di notizie prese da internet, delle playlist, e di altre cose che non giudico, ma che semplicemente non mi interessano.

Ci sono musicisti poco conosciuti, che hanno scelto percorsi difficili, che hanno imbracciato il loro strumento come direbbe De Andrè, in direzione ostinata e contraria, uno di questi è Frank Lowe, un sassofonista nato a Memphis, in Tennessee, il 24 giugno 1943.

Lowe comincia i suoi studi da ragazzino quando si dedica al canto, successivamente studia prima in Kansas e poi al conservatorio di San Francisco dove perfeziona studi di teoria musicale e armonia

Polistrumentista suona il pianoforte, la tromba e il flauto, ma sceglie alla fine di esprimersi soprattutto attraverso il sassofono tenore.

Fa parte di quei musicisti che hanno animato la scena del Free Jazz nei tumultuosi anni settanta, nei quali il mondo della musica improvvisata fu attraversata da gente come: i sassofonisti Pharoah Sanders, David Murray, il trombettista Leo Smith, e il mai troppo citato Henry Threadgil, una figura fondamentale della scena free di Chicago.

Partito dal blues, ha studiato il sassofono con Bert Wilson, un sassofonista nato a Evansville, nell’Indiana, che ha collaborato tra gli altri con musicisti come James Zitro e Sonny Simmons, e ha suonato nel 1966 con John Coltrane.

Tra le sue prime registrazione quella con il cantante blues Floyd White, successivamente la sua attenzione viene catturata da quei giganti che hanno operato nella generazione precedente la sua, subendo naturali influenze da musicisti come Ornette Coleman, Eric Dolphy, Cecil Taylor, John Coltrane e San Ra con il quale mosse i suoi primi passi professionali di una certa rilevanza quando nel 1971 si trasferì a New York City su suggerimento di Ornette Coleman.

Nella grande mela entrò in contatto, grazie al suo mentore Ornette Coleman, con Alice Coltrane, con la quale iniziò una collaborazione testimoniata anche dall’ LP “World Galaxy, registrato nel novembre del 1971, insieme a Reggie Workman al contrabbasso, Ben Riley alla batteria, e naturalmente Alice, che in quel disco suonò pianoforte, organo, arpa, tamboura, percussioni.

Tra i suoi primi lavori l’ottimo “Black Beings” registrato nel marzo 1973 a New York, con William Parker, un interessante contrabbassista allievo di Richard Davis, conosciuto soprattutto per la sua collaborazione con Cecil Taylor nel decennio successivo, e Rashid Sinan alla batteria, ricordato per la sua collaborazione con il sassofonista Sam Rivers.

Ha inciso al fianco di autentici caposcuola come Don Cherry, con il quale ha registrato nel 1975 “Brown Rice” per la EMI, nel quale c’era una sezione ritmica d’eccezione che vedeva Charlie Haden al contrabbasso e Billy Higgins alla batteria, un disco considerato tra le opere meglio riuscite e architettate dal trombettista di Oklahoma City.

L’ascesa di Lowe fu fulminea, apparse quasi all’improvviso sulla scena di New York, lasciando nel corso di una trentina di anni una corposa discografia e pagine decisamente interessanti.

Tra i suoi album più interessanti: “Fresh with” del 1975, con Lester Bowie alla tromba, suo fratello Joseph Bowie, al trombone, Abdul Wadud al violoncello e Steve Reid, alla batteria.

E “Lowe & Behold” del 1977, con la presenza di John Lindberg al contrabbasso, John Zorn al sassofono, quella del polistrumentista Peter Kuhn, e soprattutto l’apporto dato Phillip Wilson, uno dei membri fondatori dell’Art Ensemble of Chicago alla batteria.

Una musica selvaggia cruenta quella di Frank Lowe, per palati abituati ad ascoltare frequenze e pulsazioni fuori dall’ usuale, un sassofonista tenore da scoprire e riscoprire, che ci ha salutati il 19 settembre 2003.

Un musicista che vi consiglio di esplorare se siete in cerca di musica non convenzionale.

In conclusione, e rispondendo alla domanda iniziale: il free jazz ci rende liberi?

Mi sento di dire, che di questi tempi, siamo liberi ogni volta che abbiamo almeno una possibilità di scelta.

Nel caso della musica, oggi abbiamo la possibilità di avere fonti quasi infinite e alcune anche gratuite grazie a internet, il vero problema è quello di conoscere cosa andare a cercare.

La radio, soprattutto Radio Rai, e in forma decisamente minore la televisione, mi riferisco sempre e comunque a quella del servizio pubblico, negli anni scorsi hanno proposto trasmissioni e concerti in grado di orientare e formare un nuovo pubblico.

Attualmente purtroppo i palinsesti, soprattutto quelli televisivi, con buona pace dell’intramontabile Radio 3, in tal senso languono.

Le nuove generazioni sono quindi da un lato profilate, dagli algoritmi di internet, che hanno come scopo quello di generare profitti, dall’ altro lato, sono raggiunti da un bombardamento mediatico, nel quale sono oramai del quasi del tutto assenti scopi formativi e educativi.

Riferimenti:

“Frank Lowe | Biografia e storia”. Tutta la musica. – Huey, Steve. “Biografia di Frank Lowe”. AllMusic . – Ratliff, Ben “Coltrane: La storia di un suono”. – Colin Larkin, ed. (1992). Il Guinness Who’s Who del Jazz (prima ed.). Pubblicazione della Guinness. – Wilmer, Val (1977). Serio come la tua vita. – Frank Lowe Da Wikipedia l’enciclopedia libera – Dizionario Jazz Curcio Editore – Arrigo Polillo Jazz – Una storia del Jazz Giancarlo Roncaglia – Storia del jazz di Ted Gioia – Nuova storia del jazz di Alyn Shipton – Ritratti in jazz di Haruki Murakami – La Storia del Jazz di Adriano Mazzoletti – I maestri del Jazz De Agostini – Jazz Gli uomini gli strumenti gli stili Fabbri – Jazz & Jazzman di Antonio Lodetti Kaos. “Bert Wilson featured on Jazz NW June 16”. KNKX. 16 June 2013. JazzTimes. JazzTimes, Inc. 1997. Gary W. Kennedy, “Bert Wilson”. The New Grove Dictionary of Jazz, 2nd edition, ed. Barry Kernfeld.

7 thoughts on “Il free jazz ci rende liberi?

  1. Grazie a lei signor Lino ,per la sua minuzia nel raccontare questa icona del free jazz!

  2. Spettacolare. Spettacolare perché trovare qualcuno che parli di queste ” cose ” è, appunto, da far inceppare gli algoritmi di cui sopra. Bello bello bello, un bacetto a Frank Zappa. Ancora grazie. Roberto Angius

  3. Grazie a lei, il jazz è una grande passione, e spero di trasformare lentamente questo spazio in un porto a cui attraccare ricerche, analisi o anche semplici curiosità su questo argomento. Un saluto e buona estate
    curiosità su

  4. Grazie di avermi scritto! E’ difficile paradossalmente di questi tempi, nei quali potenzialmente abbiamo a disposizione strumenti inimmaginabili sino a pochi anni fa, scrivere, pubblicare, editare argomenti sfuggendo alla profilazione degli algoritmi. E’ anche vero che i mass media purtroppo, quasi da sempre, offrono poco spazio alla musica e al jazz, generi quasi del tutto assenti dai palinsesti delle radio, ad eccezione di Radio 3, e della televisione, ad eccezione di qualche timido sforzo di Rai 3. Spero di trasformare questo spazio in un porto a cui attraccare ricerche, studi, considerazioni e anche qualche contenuto audio e video che ho raccolto nel corso del tempo. Un saluto e buona estate!

  5. Penso che la musica rappresenta il tempo nel quale viviamo. Il free jazz infatti ebbe un gran seguito in Italia soprattutto negli anni settanta

  6. 1980 Napoli. Concerto di Anthony Braxton. Io c’ero. Grazie Lino per avermi stimolato questo bellissimo ricordo. Ho ascoltato tanto free jazz nella mia vita, e credo che gli effetti, in quanto docente di scuola primaria ci siano stati, perchè non mi sono mai lasciato influenzare dalle pressioni conformistiche e dalle logiche utilitaristiche di palazzo. Confermo: il free jazz rende liberi

  7. Grazie , la tua passione e la memoria storica , e di esperienza, ci riporta a quegli “eroici” ascolti di quegli sperimentatori originali, un po’ folli di note in libertà.

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