THE STREET

Jazz Blog

THE STREET

Una piccola storia della cinquantaduesima strada di New York.

Che senso ha oggi, in piena era virtuale parlare della cinquantaduesima strada di New York, un luogo fisico, legato a storie del passato, che per molti non ha nessun significato?

Il nostro presente è un luogo, un tempo e uno spazio che lentamente sta abbandonando la dimensione fisica. Il corpo si sta trasformando in elemento accessorio, una protesi atrofizzata e lenta, quasi incapace di reagire agli stimoli che la tecnologia, la società e persino le leggi sono in grado di tutelare.

Il corpo semi digitale, sconsacrato, privato, privo di sacralità, abusato da ogni sostanza ne aiuti a determinare il distacco dal reale.

Tempo di promiscuità, di schiavitù algoritmica, il corpo scarnificato dai bit, annullato del pensiero processato, copiato e incollato.

Un mondo senza ricordi, nel quale le informazioni pascolano e scompaiono ad un ritmo impressionante, nel quale le fonti vivono senza verifica e muoiono inghiottendo le esperienze in un buco nero, nel quale l’orizzonte degli eventi non ha più tempo da perdere.

Oppressi che amano gli oppressori, schiavi digitali che pubblicano per esistere, che faticano ad annusare una rosa e godono delle visualizzazioni raggiunte.

E tutto intorno, pioggia che fatica a bagnare una parte di mondo, e che allaga e uccide in pochi minuti, chi non l’aveva mai vista.

Un mondo quadrato, che non scorre più, giusto nelle sue linee rette, incapace di fare un passo, nel passato, ignaro del presente e timoroso del futuro.

La cinquantaduesima strada di New York, è stata un luogo fisico, reale, nel quale gli opposti si sono guardati diritti negli occhi, si sono sfidati all’ ultima nota seriamente.

La sua storia comincia alla fine del Proibizionismo, quando vari Speakeasy, a cominciare dal quello di Joe Helbock, il gestore del famoso Onyx, poterono vendere alcol legalmente.

Il passo successivo fu quello di introdurre della musica come elemento socializzante e utile ad intrattenere il pubblico.

Fu come una calamita che attirò il mondo della musica e del jazz a sé con una forza senza precedenti, un luogo nel quale gli opposti si attrassero senza soluzione di continuità, fu uno scontro e un incontro generazionale. Il sassofono di Coleman Hawkins, con il piano di Erroll Garner, la tromba di Dizzy Gillespie con il contrabbasso di Oscar Pettiford, la voce di Nat King Cole con l’ultimo assolo di Bird.

Persone, storie, abusi, privazioni, studio, fame, disperazione, puzza di rancido e di sudore, corde bisunte ance corrose, aliti cattivi, puzza di alcol, fumo di sigarette, profumi sguaiati, suoni, frequenze, vibrazioni, tovaglioli sporchi, rumore di piatti, questo era la cinquantaduesima strada di New York.

L’ombelico del jazz, il luogo di ritrovo dei musicisti, dei soldati, dei marinai, delle prostitute, delle coppiette alla prima uscita, tutti insieme, tutti seduti gli uni vicini agli altri, sena limiti di età, sesso e qualche volta senza neanche limiti di razza.

Sia chiara una cosa. Era un luogo disperato, nel quale autentici geni, musicisti fondamentale per lo sviluppo della musica, venivano malpagati sfruttati e spesso trattati peggio delle bestie.

Ma in ogni caso, i suoi piccoli e risicati palchi, furono i luoghi nei quali gli orchestrali potevano finalmente sfogare il proprio individualismo, le pedane di quei club furono simili a dei ring di pugilato, sui quali mettere in dubbio il proprio livello tecnico e artistico, nei quali anche i migliori hanno fallito.

Una palestra per i duri, un bagno di umiltà per tanti, e in molti caddero e furono trattati senza pietà, ma fu anche la rampa di lancio dei migliori, di quelli baciati da talento e tecnica.

C’era l’imbarazzo della scelta, si poteva sentire di tutto, in pochi metri, si poteva trovare ogni cosa, “The street” non ti avrebbe deluso.

I club erano li, sporchi, logori, improvvisati, uno accanto all’ altro, lontani parenti dei club di Harlem, stamberghe dell’anima, scantinati disadorni e putrescenti.

Eppure li, dopo i concerti, dopo i cocktail’s, dopo il teatro, dopo tutto, si riversavano gli ultimi musicisti, insieme ai primi, mescolati negli ultimi barlumi di umanità, per ascoltare, o addirittura cercare di salire sullo stesso palco con Bird, Dizzy, Bud Powell, Thelonius, Billie, nella speranza di essere accolti nelle stanze segrete del jazz.

Il Basin Street East, il Birdland, il Bop City, il Downbeat, l’ Embers, il Famous Door, l’ Hickory House, il Jimmy Ryan’s, il Kelly’s Stable, l’ Onyx, il Royal Roost, lo Spotlite, e il Three Deuces, aspettavano tutti a braccia aperte, entrate signori, fate pure il vostro gioco!

In ogni club un paradiso, in ogni club l’inferno di chi provava a sopravvivere sfornando note, le più veloci le più giuste, le più diverse.

Un luogo fisico, reale nel quale si sono consumate vite, amori, legende e bugie.

La strada raccolse l’eredità dei club di Harlem, a cominciare dal Minton’s Playhouse, la vera e prima culla del Be Bop, dove la rivoluzione prese realmente inizio.

Il suo crepuscolo arrivò nel corso degli anni cinquanta, quando lentamente, molti club cominciarono a chiudere i battenti, altri si trasformarono in locali sexy, mentre un nuovo piano urbano, trasformò inesorabilmente quella porzione di città facendo sorgere al posto dei club banche, negozi e centri commerciali.

Al mio animo romantico piace pensare che dal marzo del 1955, per rispetto e omaggio a Charlie Parker, “The street”, ha preferito chiudere i battenti, chinando il capo come un fedele suddito alla morte del suo re.

One thought on “THE STREET

  1. Bellissimo articolo. Molto vero nella sua premessa. Generoso di dettagli nel racconto finale. Testimonianza di una epoca triste e cupa, la nostra, la quale ha perso il senso dell’esistenza, della comunità e della civiltà ereditata. Tutto viene sacrificato con religiosa dovizia al dio Ego. Lasciando gli animi degli individui volutamente individuali ed individualisti nella loro inesorabile solitudine. E’ una chimica senza legami, un insieme di atomi che non hanno valenza. Un esibire senza essere, un valore disperso nel nulla, senza progresso, senza edificazioni, senza formazioni di molecole complesse. Se l’universo si fosse progredito così, sarebbe ancora agli albori del cosmo informe, senza galassie, senza cielo, senza stelle. Poiché l’essenza stessa dell’esistenza ha perso qualsiasi tipo di fascino, in cambio dell’apparire. Un voler essere forzatamente virtuali più che virtuosi, dove i profetici versi di quella virtual insanity prendono forma concreta e drasticamente reale, distruggendo ogni reminiscenza della civiltà che fu, del passato che ci fece progredire, condannandoci ad un limbo perpetuo di vuoto narcisismo ed assoluta mancanza di bellezza e condivisione vera. E’ l’uomo stesso che ha scelto questo suo declino da eremo. Ubriaco di un potere che non ha, quello del diffondere, condividere il proprio narcisismo. Intere esistenze sacrificate nel nulla del vuoto cosmico.

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